Armin Linke G8 summit, Genoa, Italy, 2001 C-print © Armin Linke 2023, courtesy Vistamare Milano / Pescara

Durezza e fragilità, leggerezza dello sguardo e stabilità della materia, architettura e fotografia. Sono questi i poli attorno ai quali ruota la mostra collettiva WHAT MAD PURSUIT. Aglaia Konrad, Armin Linke, Bas Princen, che fino al 22 ottobre porta il lavoro dei tre fotografi internazionali all’interno Teatro dell’architettura Mendrisio. L’esposizione, curata da Francesco Zanot, si propone di esplorare il rapporto tra architettura e fotografia, due discipline solo in apparenza distanti, ma che si reggono sugli stessi valori di proporzione ed equilibrio. La mostra si ispira al saggio del neuroscienziato britannico Francis Crick, introducendo il concetto di intersezioni, intese come combinazione tra sistemi differenti che si arricchiscono e si modificano attraverso lo scambio reciproco. Ad essere messa in discussione è la definizione di fotografia documentaria, che qui viene presentata nella sua duplice accezione di registrazione e dispositivo che trasforma la realtà stessa. I lavori fotografici presentati, quindi, non sono una documentazione dell’architettura, quanto un invito a una concezione diversa della stessa. La dialettica che intercorre tra obiettivo fotografico, spazio espositivo e soggetto che osserva è rimodulata, messa in discussione a favore di un ripensamento delle canoniche modalità di visione e fruizione della fotografia documentaria. Per spiegare al meglio come è stata costruita questa macchina espositiva, ne abbiamo parlato con il curatore Francesco Zanot.

 

Aglaia Konrad Shaping Stones (Grande Dixence, 2012) Black and white digital print on paper © Courtesy Aglaia Konrad and Gallery Nadia Vilenne

Gianmarco Gronchi: Come nasce la mostra e da dove viene l’idea alla base dell’esposizione?

Francesco Zanot: La mostra nasce da una suggestione del direttore dell’Accademia di Architettura Mendrisio, Walter Angonese, che ha proposto questi autori per una mostra fotografica. È stata una sua intuizione. La collaborazione prevede che gli artisti siano coinvolti nella progettazione per sviluppare una riflessione sul concetto stesso di collaborazione. Il metodo, in questo senso, diventa soggetto. L’esposizione si concentra sul tema dell’incontro e dell’intersezione tra lavori diversi e discipline diverse, in una sorta di verifica sulla tensione che si genera accostando opere di vari autori realizzate con tempi e modalità lontane tra loro. Oltre al tema della contaminazione, che rimane il principale filo conduttore della mostra, vi è poi anche quello dell’architettura. Abbiamo messo al centro questo soggetto. I tre artisti, infatti, hanno lavorato con l’architettura, ma nessuno di loro è un fotografo di architettura. In questa sede, quindi, abbiamo voluto mettere in discussione il concetto stesso di fotografia di architettura, che spesso viene intesa come semplice documentazione di oggetti. La mostra propone invece una combinazione tra documentazione e interpretazione del soggetto stesso. Nel caso dei tre fotografi selezionati, l’architettura è solo uno dei molteplici soggetti che entrano nel loro obiettivo. Nel momento in cui lo spazio architettonico viene indagato attraverso il medium fotografico, se ne fa una verifica, un’analisi, offrendo allo spettatore una prospettiva inedita. È come se l’architettura si contaminasse e la mostra diventasse uno strumento per mettere alla prova il rapporto tra pratica fotografica e progetto architettonico.

Aglaia Konrad Shaping Stones (London, 2013) Black and white digital print on paper © Courtesy Aglaia Konrad and Gallery Nadia Vilenne

GG: Il Teatro dell’architettura di Mendrisio è uno spazio complesso, progettato da Mario Botta. Perché questa sede per una mostra fotografica?

FZ: Il teatro dell’architettura è lo spazio espositivo dell’Accademia di Mendrisio. Il teatro stesso è diventato uno degli elementi della nostra esplorazione. Abbiamo provato a trattare lo spazio espositivo non tanto come contenitore, quanto come un altro tema da approfondire. Da un lato, infatti, c’è l’architettura interpretata dai tre autori attraverso il medium fotografico, e dall’altro l’architettura che sta fisicamente fuori il lavoro dei tre autori. Lo scatto, quindi, diventa un elemento di mediazione tra l’architettura esterna, fisica, concreta e quella immortalata dalle immagini. Entrambe sono oggetto del lavoro di analisi dei fotografi, perché in fase di allestimento si è cercato di tenere conto di alcuni aspetti specifici, affinché i lavori presentati potessero abitare il luogo e non solo per riempirlo e occuparlo. Anche il teatro è diventato un soggetto da mettere in mostra per gli spettatori di questa esposizione, seppur con modalità differenti rispetto alla fruizione degli scatti fotografici. Per esempio, alcune opere di Armin Linke sono presentate con un display che sfrutta i fori nei muri di cemento usati per reggere le casseforme in fase di costruzione dell’architettura. I fori diventano il punto in cui ci si aggancia per esporre le opere e un dettaglio tecnico scandisce il ritmo dell’allestimento del lavoro. Allestimento, in questo caso, potrebbe essere definito site specific, perché la disposizione delle opere è dettata dallo spazio stesso.

GG: In che modo la bidimensionalità dello scatto fotografico dialoga con la tridimensionalità dei progetti architettonici?

FZ: Ogni immagine fotografica è una traduzione di un oggetto tridimensionale in qualcosa di differente. In questo caso abbiamo voluto evidenziare questo passaggio, in un processo di trasformazione che dalla tridimensionalità dell’architettura passa al formato in due dimensioni della fotografia. La foto è come un metabolismo attraverso il quale l’oggetto passa per uscirne trasformato. Un esempio che si potrebbe fare relativamente a questa mostra sono i supporti che abbiamo usato per esporre i lavori, che non sono attaccati al muro, ma distanziano la foto dal supporto murario. Alcune foto, quindi, è come se fuoriuscissero dalla parete, acquisendo una dimensione inedita, come se fossero oggetti tridimensionali. Questo introduce una dimensione ulteriore nella mostra, una possibilità di fruizione e interpretazione diversa dello scatto e dell’architettura analizzata nello scatto. Alcune altre opere, invece, sono incollate direttamente sulla parete. In questo modo si lasciano trasparire i difetti e la texture del muro, tanto che l’architettura è come se respirasse attraverso la carta fotografica. Alcune opere, infine, sono stampate su carta di riso, che ha una texture e uno spessore particolare, in grado di evidenziare la tridimensionalità del supporto fotografico. Sono accorgimenti sottili, talvolta complessi da intuire, ma necessari affinché l’oggetto fotografato acquisisca un volume che sfugge la dimensione bidimensionale. Quando si tratta di una mostra, le foto non sono più immagini, ma sono oggetti, che hanno un corpo e occupano uno spazio. Noi abbiamo cercato di facilitare l’incontro da oggetto e spettatore all’interno dello spazio. Abbiamo voluto enfatizzare l’incontro tra questi due corpi, all’interno di un terzo oggetto tridimensionale che è quello dell’architettura del Teatro dell’accademia di Mendrisio.

GG: In che modo i tre artisti selezionati si sono approcciati all’analisi dell’architettura?

FZ: Per questi tre artisti l’architettura è solo uno dei soggetti sui quali solitamente lavorano e tutti e tre l’affrontano in maniera inedita e personale. Il loro lavoro, come questa mostra, è guidato dall’idea di contaminazione. L’architettura a volte diventa anche una scusa per dischiudere una serie di possibilità ulteriori. I temi dell’economia, dell’ecologia, della politica, ma anche della tecnologia sono affrontati attraverso l’analisi dell’architettura e la riflessione attorno ai risultati della pratica architettonica. Sono tematiche che informano il lavoro di tutti e tre gli artisti in mostra in maniera molto ricorrente. Per esempio, il rapporto tra potere ed economia è qualcosa che Aglaia Konrad e Bas Princen mettono al centro della loro pratica. Spesso, quindi, il soggetto architettonico diventa un modo per leggere sottotraccia altre dinamiche, per parlare in maniera critica di altre questioni. Attraverso il lavoro qui esposto, dal titolo Shaping Stones, Aglaia Konrad mette in scena il dialogo tra naturale e artificiale, che porta poi a considerare la dualità e la dicotomia tra persistenza e trasformazione. Shaping Stones è un lavoro centrato sul materiale e sulle pietre, perché il materiale è un sinonimo di persistenza, ma viene anche trasformato in continuazione dagli uomini per costruire architetture. È chiaro quindi che il soggetto architettonico è presente, ma non è un lavoro di registrazione. Aggiungo che anche l’architettura, volendo, può essere vista come una forma di rappresentazione ed è uno dei motivi per cui Bas Princen la mette al centro del suo lavoro. La sua fotografia si concentra sul dare spazio a tipi diversi di interpretazione, con l’idea di introdurre un secondo livello di interpretazione. L’architettura ha la possibilità di porsi come livello secondario di lettura, essendo sia una forma in sé, che un contenitore di immagini. Il lavoro di Princen indaga quindi gli oggetti che contengono altre immagini, nello stesso modo in cui anche le sue stesse foto sono fisicamente immagini che rappresentano altri oggetti.

Bas Princen Enlarged Copy #1 (Manhattan court site, Walker Evans, October 1928, collection CCA, Montreal), 2022 Framed c-print, 153cm x 190 cm, Scale 25:1